lunedì 20 novembre 2017

Annuncio: ci mancava anche l'influenza…

…oltre a tutti i numerosi impegni! Il risultato è che i nuovi post sono per ora sospesi, potrebbero comparire tra qualche giorno, un mese o addirittura nel 2018; in quest'ultimo caso vi porgiamo con anticipo i nostri migliori auguri di buone feste.

lunedì 2 ottobre 2017

Le colonie italiane in Messico

Quando il fascismo andò al potere in Italia, nel 1922, l'immagine del Messico era, nel paese, decisamente negativa; tanto che, il 30 Maggio 1924, Giacomo Matteotti descrisse in parlamento le violenze fasciste come "messicane".
Il motivo principale fu la caduta  del regime di Porfirio Díaz e la successiva sequela di colpi di stato e guerre civili. Ma non solo.
Come prima cosa, negli anni successivi allo strappo di Livorno e alla creazione del PCI da parte di Gramsci (1921), si acutizzò in Italia l'antibolscevicismo,  già diffuso in Europa sin dal 1917. La rivoluzione messicana iniziò prima di quella russa e non fu certamente marxista, ma gli attacchi alla proprietà privata e ai latifondisti, i toni da guerriglia, l'anticlericalismo e l'ispirazione al socialismo del regime furono il pretesto per dipingerla come una rivoluzione bolscevica.
Tra i più accaniti sostenitori di questa visione - storicamente azzardata se non errata - ci fu la Chiesa cattolica, terrorizzata da quanto successo durante la crisi religiosa messicana (1924-28) che portò alla sottrazione di privilegi detenuti dal clero, arrivando sino ad una sorta di persecuzione. Per questo il dittatore messicano di allora, Plutarco Elías Calles, fu dipinto dalla stampa cattolica come anticristo.
Ma si era già "in odore" di Patti Lateranensi, e i quotidiani di regime si unirono al coro, dando a Calles del lunatico. Non era questo però il motivo principale. In Italia quella riforma agraria promessa da Mussolini, si scontrava con la nuova situazione che vedeva il regime in combutta con i grandi proprietari terrieri. Ed ecco quindi la critica spietata, attraverso la stampa, alla distribuzione delle terre in Messico, accusata di deprimere la produzione regalando a contadini primitivi terre fertili che non erano in grado di gestire. [1]
Un'immagine di provenienza sconosciuta
tratta da un sito oggi scomparso:
mostra alcuni italiani emigrati in Messico.
Per questo motivo, il regime passò da un tentativo di collaborazione economica a uno di vera e propria "colonizzazone", in nome talvolta delle comuni origini latine.
Tra il 1919 ed il 1926, l'Italia si sforzò di espandere il traffico commerciale col Messico. Furono organizzate alcune missioni diplomatico-commerciali per studio; una delle quali fu affidata a Ezio Garibaldi, nipote del grande condottiero, entrato in conflitto con la famiglia per la sua convinzione che fosse il fascismo il vero erede della tradizione garibaldina. Venne coinvolto anche Gabriele D'Annunzio, come patrocinatore della "Società Italo-messicana". Commercialmente questo sforzo non portò a nulla, ma il suo secondo fine era di stabilire comunità italiane in Messico ben viste dal regime. [2]
In alcune zone rurali vennero istituite colonie di immigrati italiani. Ad esempio, un gruppo di coloni trentino fondò la cooperativa L'Estanzuela nel 1924; non prosperò tanto a lungo quanto si era sperato, ma abbastanza per creare un contatto con le popolazioni ispaniche locali, come accaduto ad esempio nel Rio de La Plata in Argentina.
Mussolini voleva creare delle "sue" colonie per "invadere" culturalmente la società messicana e portare sempre più ampi settori di questa dalla sua parte, a causa dell'acredine tra i due paesi citata prima. Ma non funzionò nemmeno questa parte del piano; paradossalmente, la situazione cambiò solo negli anni '30 come "effetto collaterale" delle relazioni stipulate da uno dei più tenaci oppositori del fascicsmo, F. D. Roosvelt. [3]
"L'aiuto" mussoliniano non fu apprezzato nemmeno dalle colonie italiane già stabilite e prosperanti. Per esempio, Villa Luisa, nello stato di Veracruz, fondata dal 1858.[4]
Ma ancora più interessante era - ed è tuttora -  il villaggio Chipilo nello stato di Puebla, che conserva ancora il dialetto veneto ad oltre cento anni dalla fondazione.
Nel 1882 giunse in Messico un gruppo di emigranti italiani che fondarono un paese, Chipilo, sulle haciende abbandonate di Chipiloc e Tenamaztla, a dodici chilometri da Puebla. Erano quasi tutti originari del Feltrino, zona di confine tra le province di Belluno e Treviso; in particolare del paese di Segusino.
Chipilo è rimasto sostanzialmente isolato per decenni, in quanto paese con agricoltura di sussistenza e nulla più; solo in tempi più recenti, con lo sviluppo e l'industrialzzazione, si è dovuto aprire. Negli anni '20 e '30 era un'enclave linguistica del dialetto pedemontano orientale veneto, e tale è rimasta fino a dopo la guerra. [5]
In tutto questo, il ruolo di Callegari rimane sconosciuto. Non c'è alcuna prova che abbia veramente avuto qualche contatto significativo con la popolazione delle colonie italiane. Probabilmente, da intellettuale critico, non voleva che le sue ricerche si mischiassero con i progetti economico-politici del regime.

[1] Franco Savarino savarino@prodigy.net.mx dalle relazioni, del "XII Congreso de AHILA", Oporto, 21-25 settembre 1999, e nel Convegno internazionale: "Fascism in International Context: Europe and America, 1919-1945", Roma, 20-23 giugno 2000.
[2] Presenza del fascismo italiano in Messico (1922-1935) da Africana. Rivista di studi extraeuropei, 2001, pp. 131-153
[3] Zilli Manica, José Benigno. 1981. Italianos en México: documentos para la historia de los colonos italianos en México. Xalapa: Ed. San José 1998.
Id. La estanzuela: historia de una cooperativa agrícola de italianos en México. Ed. Gob. Veracruz-Llave 1997.
[4] Ursini F. 1983. Trevigiani in Messico: riflessi linguistici di una dialettica tra conservazione ed assimilazione. Guida ai dialetti veneti 5, ed. Cortelazzo, 73-84.
[5] MacKay, Carolyn J. 1992. Language Maintenance in Chipilo: a Veneto dialect in Mexico. International Journal of the Sociology of Language 96:129-45.

venerdì 28 luglio 2017

Pionieri dell'Archeologia messicana, parte seconda

La mappa disegnata da James Churchward, da my-mu.com
Uno dei pochi a tenere in considerazione Le Plongeon, del quale abbiamo parlato nella prima parte, fu un'inglese, colonnello dell’Esercito Britannico: John Churchward. Nel 1870 costui strinse amicizia con un sacerdote di un tempio indù, che lo aiutò nella comprensione e interpretazione di una serie di tavolette antichissime: quelle del Naacal, antichissima confraternita mistica, appartenente ad un impero con centro nell'oceano Pacifico ma diffusosi in tutto il mondo raggiungibile.
Churchward fu spronato da William Niven, archeologo indipendente, ex-ingegnere minerario scozzese. Niven trovò, mentre faceva ricerche nel sito di Guerrero, non lontano da Acapulco, dove erano stati prelevati i materiali per la costruzione di Città di Messico, alcune antichissime verstigia coperte di cenere vulcanica, cosa che faceva pensare ad una catastrofe simile a quella di Pompei. L'esame le stimò come vecchie di 50.000 anni.
Nel 1921, a Santiago Ahuizoctla, trovò una notevole quantità di tavolette; Churchward le riconobbe come opera dei Naacal, da cui l'affermazione che questa civiltà sarebbe risalita addirittura a 200.000 anni prima. Era il leggendario "continente perduto", conosciuto anche come Mu?
Come Le Plongeon, anche Churchward e Niven non furono creduti; credere a loro significava mettere in discussione la storia del mondo come l'occcidente l'aveva sempre spiegata (quasi imposta).
Per motivi forse simili, nel 1930, non fu tenuto molto in considerazione lo psichiatra russo Emanuel Velokovsky; appassionatosi alla storia antica abbracciando la teoria freudiana della contemporaneità di Mosé e del faraone Akhenaton [1], egli individuò dei resti di barche sul fondo del lago Titicaca, in Perù, sorprendente simili alle barche di papiro usate nell'antico Egitto. [2]

[1] S, Freud, Der Mann Moses und die monotheistische Religion, Amsterdam 1939
[2] http://www.laportadeltempo.com/Documenti/doc_mesoam.htm

sabato 10 giugno 2017

Pionieri dell'Archeologia messicana, parte prima


Il primo incaricato di mettere in atto un restauro generale del partimonio percolombiano in Messico fu Leopoldo Batres, ex ufficiale dell’esercito messicano e grande appassionato d’archeologia.
Un individuo assolutamente inadatto: ottenne l'incarico solo per la sua amicizia con l’allora presidente messicano Porfirio Diaz. Le sue limitate conoscenze e competenze in ambito storico-archeologico, determinarono un restauro che fu a dir poco disastroso.
Ad esempio, a Teotihuacàn fece costruire una quinta terrazza, originariamente inesistente, sulla maestosa Piramide del Sole del senitero di Miccaotli.
Dopo lo scempio compiuto, il lavoro a Teotihuacàn riprese in modo molto più serio e scrupoloso, dal 1962 in poi. [1]
In precedenza, non vi era nessun piano generale. Ma dopo i primi colonizzatori cattolici, e la loro sete di distruzione iconoclasta su tutto ciò che non fosse cristiano, molti studiosi si erano dedicati allo studio e alla salvaguardia di diversi siti.

Nel 1839 un giovane avvocato di New York, John Lloyd Stephens, e un artista inglese, Fredrick Catherwood, entrambi appassionati di archeologia ed arti antiche, scoprirono nell'attuale Belize l’antica città Maya di Copàn. Acquistarono il tutto da un ignaro latifondista per 50 dollari USA.  
Dipinto di F. Catherwood raffigurante la visione
frontale del tempio Maya di Tulun
(Creative Common License)

"La vegetazione nascondeva gran parte degli edifici e rendeva indistinguibili quelli ancora fagocitati dalla giungla. Ma Stephens comprese subito di trovarsi di fronte alla capitale di un impero. Prima emersero degli immensi blocchi di pietra ed una rampa di scale che conduceva ad una terrazza. Subito dopo, una statua dal volto inespressivo con gli occhi chiusi, un totem gigantesco, alto più del doppio di un uomo e, ancora, decorazioni così magnificamente intarsiate da ricordare le statue di Buddha dell’India. Si trattava del prodotto di una civiltà altamente sofisticata, a giudicare dall’imponenza delle costruzioni. C’erano palazzi riccamente scolpiti e iscritti, stele ricoperte di geroglifici, ampi spiazzi, o plazas come furono definite, alcune delle quali si scoprì in seguito dedicate al gioco della pelota, e piramidi a gradoni che richiamavano alla mente la Saqqara d’Egitto"
Foto di Desiré Charney scattata a Chicken Itzà
(Creative Common License)
(Questa citazione, come le seguenti informazioni, sono state pubblicate da un anonimo su un sito putroppo scomparso) [2].

Nello stesso periodo, grazie anche allo sforzo di Massimiliano d'Asburgo, altri studiosi scoprirono una ad una le località che poi visitate da Callegari. Molte notizie su Palenque (in Chiapas), Tula (vicino alla capitale) e Chichen Itzà (Yucatan) si devono a Desirè Charney, a partire dal 1880.
Lo studioso dapprima ipotizzò che sotto il villaggio indio di Tula giacessero le rovine di Tollen, la capitale antica dei Toltechi, e gli scavi confermarono ciò.
Ma le ipotesi più ardite di Charney riguardarono l'origine dei popoli plaeoamericani. A Yaxchilan, un sito Maya poco noto ed esplorato, trovò in un bassorilievo una correlazione con un precetto religioso caro ai fedeli della del dio indiano Siva; e notò le similitudini tra le piramidi di Chichen Itzà e quelle di Angkor Vat in Cambogia. Questo lo portò a formulare teoria su una migrazione dall'Asia all'America, al temo della deriva dei continenti.

Pochi gli diedero retta. Tra questi Auguste Le Plongeon, un medico appassionato di archeologia al quale si deve la scoperta di uno dei primi "Chacmul", un tipo di statua percolombiana raffigurante un uomo accovacciato con la testa girata di 90°. Le Plongeon scoprì similitudini tra le lingue dei Maya e dei popoli antichi della Mesopotamia. Ma anche lui non fu preso in considerazione.

[1] www.lescienzewebnews.it/archeologia/articoli/art.asp?news=26
[2] http://www.laportadeltempo.com/Documenti/doc_mesoam.htm

giovedì 30 marzo 2017

La mostra Maya a Verona


Dopo sei mesi, si è chiusa il giorno 5 Marzo la mostra "Maya, il Linguaggio della Bellezza", ospitata al Palazzo della Gran Guardia di Verona.
In previsione di un nostro futuro lavoro - probabilmente il prossimo - che tratterà del Popol Vuh, siamo andati a visitare la mostra ed a scattare qualche foto.
Eccovi un primo limitato "assaggio".

Un Chacmool. Si tratta di una statua nella quale un soggetto di forma umana assume questa posizione particolare.
Un uomo che indossa un copricapo con le fattezze di Chaank, dio della guerra

I due piatti raffigurati illustrano alcune fasi della creazione del mondo narrate nel Popol Vuh.

Il serpente piumato, la livrea del dio di nome Gukumatz (Maya di Quichè), o Kukulkan (Maya Yucatec); l'equivalente del dio Quetzalcoatl Azteco


venerdì 17 febbraio 2017

Ultimi dettagli sul carteggio Callegari-Pettazzoni

Il carteggio, lo ribadiamo, si trova nella Biblioteca Comunale "G. C. Croce" di San Giovanni in Persiceto (Bologna). In tutto contiene 37 lettere, 34 scritte da Callegari e tre da Pettazzoni.

Lettere dal 1925 al 1927
Escludendo la prima, una semplice ricevuta, le due lettere riguardano la creazione dell'Enciclopedia Italiana, il progetto dell'Istituto appena fondato da Giovanni Treccani sotto la supervisione di Giovanni Gentile. Lo stesso Gentile, definito "senatore", viene citato in entrambe le missive. Pare di capire che Callegari non sia stato chiamato a far parte del progetto, come sperava, ed in particolare sia sfumata la sua collaborazione alla sezione geografica dell'opera, nonostante il parere del responsabile, il professor Roberto Almagià.
Nella prima missiva Callegari polemizza su questa scelta ("Non mi sono mai occupato di politica, pur seguendola come storico"; "Perdoni […] questo sfogo"). Nella seconda appare rassegnato a perseguire altri obiettivi ("Pare finalmente che, ad XI o XII, potrò tenere quattro lezioni di antichità americane all'Università Cattolica di Milano").

Lettere dal 1933 al 1935
Sono due lettere, entrambe su carta intestata dell'Università Cattolica milanese, nelle quali lo studioso appare rinfrancato dal nuovo incarico presso questo ateneo. Nella prima, Callegari chiede informazioni su un simbolo esoterico ("una mano stilizzata- spesso in colore nero - con un occhio nella palma") trovato anche nei reperti dei Mounds - antichissime vestigia del passato trovate negli attuali U.S.A. - non ritenedosi soddisfatto della spiegazione del prof. Wagner. Nella seconda lettera, invece, segnala a Pettazzoni un elogio di una sua opera da parte del professor Franz Blom.

Lettere dal 1939 al 1940

Nelle prime due missive si racconta di come Pettazzoni riesca a far adeguare un premio della Reale Accademia, inizialmente rifiutato da Callegari perché troppo esiguo. Segue poi nella lettera successiva, la prima citazione del C.I.S.A.: Callegari è impegnato in una trattativa per la pubblicazione sulla rivista del Centro di un suo articolo sul popolo Chibcha.
È nelle lettera successiva, però, che lo studioso veronese rivela i suoi veri piani. Si legge: "La prossima settimana parto per Coredo (Trentino) ove resterò tre mesi - avendo deciso di lasciare la scuola di commercio e chiedere la pensione"; più avanti Callegari rinuncia polemicamente al Congresso degli Americanisti di Città di Messico ("Il ministero si accontenterà di farsi rappresentare […] dal suo ministro plenipotenziario!").
In questa e nelle successive lettere lo studioso annuncia trionfalmente l'avvenuta ricezione dell'opera sul Popol Vuh di Villacorta e Rodas.

Lettere del 1943
Sono le comunicazioni che precedono i fatti dell'8 Settembre. Con il paese in guerra e sull'orlo del baratro, Callegari non sembra nemmeno insistere troppo sulla pubblicazione delle sue opere, eccetto per il Popol Vuh, per il  quale chiede l'interessamento promesso a suo tempo da Gorgolini ("poco prima che scomparisse").
Su questo è anche la prima risposta di Pettazzoni, della quale ci è giunta la minuta.

Lettere dal 1945 in poi
La prima lettera di questo gruppo è senza dubbio la piuù importante. Il 21 Novembre 1945, Callegari riesce finalmente a scrivere a Pettazzoni, e conferma di essere in pensione da quattro anni. Per la prima volta, traccia una linea sulla pubblicazione del suo Popol Vuh ("non mi fo alcuna illusione") e, soprattutto, informa sulla rovina subita dai suoi averi nel bombardamento americano ("il mio appartamento in Verona fu distrutto […] ma i libri e i quadri in massima parte salvi […] la collezione di oggetti esotici totalmente saccheggiata").
In realtà, Callegari nutre ancora speranze per la pubblicazione della sua opera, tanto è vero che nella successiva lettera annucia, grazie a ("una mia compaesana, Gina Zandron, studentessa del Magistero di Roma") la spedizione della traduzione della versione guatemalteca del 1927, con tanto di autorizzazione alla pubblicazione del ministro Antonio Villacorta, l'autore.
La risposta di Pettazzoni è nella sua ultima lettera leggibile - perché dattiloscritta - ed è negativa, poiché al massimo ritiene possibile pubblicare un sunto. Callegari rifiuta, in quanto l'autorizzazione parla di pubblicazione integrale, e da questo momento in poi i rapporti tra i due studiosi sembrano farsi più freddi: lo studioso veronese scrive lettere sempre più brevi (e poi passa alle cartoline) dove racconta i tentativi falliti con vari editori, si lamenta del disinteresse, e comunque mantiene un tono amichevole. Fino a quando, nel 1952, cede a Pettazzoni di un non precisato libro ("di cui le scrissi […] ne faccia ciò che crede"). L'ultima missiva, della fine del 1954, è scritta dalla nuova casa di Verona e probilmente precede la sua morte di pochi giorni.

La stazione ferroviaria di Porta Nuova dopo i bombardamenti alleati.
Verona è probabilmente la città italiana dove questi ultimi hanno
provocato i maggiori danni. (Da Wikipedia)