lunedì 2 ottobre 2017

Le colonie italiane in Messico

Quando il fascismo andò al potere in Italia, nel 1922, l'immagine del Messico era, nel paese, decisamente negativa; tanto che, il 30 Maggio 1924, Giacomo Matteotti descrisse in parlamento le violenze fasciste come "messicane".
Il motivo principale fu la caduta  del regime di Porfirio Díaz e la successiva sequela di colpi di stato e guerre civili. Ma non solo.
Come prima cosa, negli anni successivi allo strappo di Livorno e alla creazione del PCI da parte di Gramsci (1921), si acutizzò in Italia l'antibolscevicismo,  già diffuso in Europa sin dal 1917. La rivoluzione messicana iniziò prima di quella russa e non fu certamente marxista, ma gli attacchi alla proprietà privata e ai latifondisti, i toni da guerriglia, l'anticlericalismo e l'ispirazione al socialismo del regime furono il pretesto per dipingerla come una rivoluzione bolscevica.
Tra i più accaniti sostenitori di questa visione - storicamente azzardata se non errata - ci fu la Chiesa cattolica, terrorizzata da quanto successo durante la crisi religiosa messicana (1924-28) che portò alla sottrazione di privilegi detenuti dal clero, arrivando sino ad una sorta di persecuzione. Per questo il dittatore messicano di allora, Plutarco Elías Calles, fu dipinto dalla stampa cattolica come anticristo.
Ma si era già "in odore" di Patti Lateranensi, e i quotidiani di regime si unirono al coro, dando a Calles del lunatico. Non era questo però il motivo principale. In Italia quella riforma agraria promessa da Mussolini, si scontrava con la nuova situazione che vedeva il regime in combutta con i grandi proprietari terrieri. Ed ecco quindi la critica spietata, attraverso la stampa, alla distribuzione delle terre in Messico, accusata di deprimere la produzione regalando a contadini primitivi terre fertili che non erano in grado di gestire. [1]
Un'immagine di provenienza sconosciuta
tratta da un sito oggi scomparso:
mostra alcuni italiani emigrati in Messico.
Per questo motivo, il regime passò da un tentativo di collaborazione economica a uno di vera e propria "colonizzazone", in nome talvolta delle comuni origini latine.
Tra il 1919 ed il 1926, l'Italia si sforzò di espandere il traffico commerciale col Messico. Furono organizzate alcune missioni diplomatico-commerciali per studio; una delle quali fu affidata a Ezio Garibaldi, nipote del grande condottiero, entrato in conflitto con la famiglia per la sua convinzione che fosse il fascismo il vero erede della tradizione garibaldina. Venne coinvolto anche Gabriele D'Annunzio, come patrocinatore della "Società Italo-messicana". Commercialmente questo sforzo non portò a nulla, ma il suo secondo fine era di stabilire comunità italiane in Messico ben viste dal regime. [2]
In alcune zone rurali vennero istituite colonie di immigrati italiani. Ad esempio, un gruppo di coloni trentino fondò la cooperativa L'Estanzuela nel 1924; non prosperò tanto a lungo quanto si era sperato, ma abbastanza per creare un contatto con le popolazioni ispaniche locali, come accaduto ad esempio nel Rio de La Plata in Argentina.
Mussolini voleva creare delle "sue" colonie per "invadere" culturalmente la società messicana e portare sempre più ampi settori di questa dalla sua parte, a causa dell'acredine tra i due paesi citata prima. Ma non funzionò nemmeno questa parte del piano; paradossalmente, la situazione cambiò solo negli anni '30 come "effetto collaterale" delle relazioni stipulate da uno dei più tenaci oppositori del fascicsmo, F. D. Roosvelt. [3]
"L'aiuto" mussoliniano non fu apprezzato nemmeno dalle colonie italiane già stabilite e prosperanti. Per esempio, Villa Luisa, nello stato di Veracruz, fondata dal 1858.[4]
Ma ancora più interessante era - ed è tuttora -  il villaggio Chipilo nello stato di Puebla, che conserva ancora il dialetto veneto ad oltre cento anni dalla fondazione.
Nel 1882 giunse in Messico un gruppo di emigranti italiani che fondarono un paese, Chipilo, sulle haciende abbandonate di Chipiloc e Tenamaztla, a dodici chilometri da Puebla. Erano quasi tutti originari del Feltrino, zona di confine tra le province di Belluno e Treviso; in particolare del paese di Segusino.
Chipilo è rimasto sostanzialmente isolato per decenni, in quanto paese con agricoltura di sussistenza e nulla più; solo in tempi più recenti, con lo sviluppo e l'industrialzzazione, si è dovuto aprire. Negli anni '20 e '30 era un'enclave linguistica del dialetto pedemontano orientale veneto, e tale è rimasta fino a dopo la guerra. [5]
In tutto questo, il ruolo di Callegari rimane sconosciuto. Non c'è alcuna prova che abbia veramente avuto qualche contatto significativo con la popolazione delle colonie italiane. Probabilmente, da intellettuale critico, non voleva che le sue ricerche si mischiassero con i progetti economico-politici del regime.

[1] Franco Savarino savarino@prodigy.net.mx dalle relazioni, del "XII Congreso de AHILA", Oporto, 21-25 settembre 1999, e nel Convegno internazionale: "Fascism in International Context: Europe and America, 1919-1945", Roma, 20-23 giugno 2000.
[2] Presenza del fascismo italiano in Messico (1922-1935) da Africana. Rivista di studi extraeuropei, 2001, pp. 131-153
[3] Zilli Manica, José Benigno. 1981. Italianos en México: documentos para la historia de los colonos italianos en México. Xalapa: Ed. San José 1998.
Id. La estanzuela: historia de una cooperativa agrícola de italianos en México. Ed. Gob. Veracruz-Llave 1997.
[4] Ursini F. 1983. Trevigiani in Messico: riflessi linguistici di una dialettica tra conservazione ed assimilazione. Guida ai dialetti veneti 5, ed. Cortelazzo, 73-84.
[5] MacKay, Carolyn J. 1992. Language Maintenance in Chipilo: a Veneto dialect in Mexico. International Journal of the Sociology of Language 96:129-45.