sabato 10 giugno 2017

Pionieri dell'Archeologia messicana, parte prima


Il primo incaricato di mettere in atto un restauro generale del partimonio percolombiano in Messico fu Leopoldo Batres, ex ufficiale dell’esercito messicano e grande appassionato d’archeologia.
Un individuo assolutamente inadatto: ottenne l'incarico solo per la sua amicizia con l’allora presidente messicano Porfirio Diaz. Le sue limitate conoscenze e competenze in ambito storico-archeologico, determinarono un restauro che fu a dir poco disastroso.
Ad esempio, a Teotihuacàn fece costruire una quinta terrazza, originariamente inesistente, sulla maestosa Piramide del Sole del senitero di Miccaotli.
Dopo lo scempio compiuto, il lavoro a Teotihuacàn riprese in modo molto più serio e scrupoloso, dal 1962 in poi. [1]
In precedenza, non vi era nessun piano generale. Ma dopo i primi colonizzatori cattolici, e la loro sete di distruzione iconoclasta su tutto ciò che non fosse cristiano, molti studiosi si erano dedicati allo studio e alla salvaguardia di diversi siti.

Nel 1839 un giovane avvocato di New York, John Lloyd Stephens, e un artista inglese, Fredrick Catherwood, entrambi appassionati di archeologia ed arti antiche, scoprirono nell'attuale Belize l’antica città Maya di Copàn. Acquistarono il tutto da un ignaro latifondista per 50 dollari USA.  
Dipinto di F. Catherwood raffigurante la visione
frontale del tempio Maya di Tulun
(Creative Common License)

"La vegetazione nascondeva gran parte degli edifici e rendeva indistinguibili quelli ancora fagocitati dalla giungla. Ma Stephens comprese subito di trovarsi di fronte alla capitale di un impero. Prima emersero degli immensi blocchi di pietra ed una rampa di scale che conduceva ad una terrazza. Subito dopo, una statua dal volto inespressivo con gli occhi chiusi, un totem gigantesco, alto più del doppio di un uomo e, ancora, decorazioni così magnificamente intarsiate da ricordare le statue di Buddha dell’India. Si trattava del prodotto di una civiltà altamente sofisticata, a giudicare dall’imponenza delle costruzioni. C’erano palazzi riccamente scolpiti e iscritti, stele ricoperte di geroglifici, ampi spiazzi, o plazas come furono definite, alcune delle quali si scoprì in seguito dedicate al gioco della pelota, e piramidi a gradoni che richiamavano alla mente la Saqqara d’Egitto"
Foto di Desiré Charney scattata a Chicken Itzà
(Creative Common License)
(Questa citazione, come le seguenti informazioni, sono state pubblicate da un anonimo su un sito putroppo scomparso) [2].

Nello stesso periodo, grazie anche allo sforzo di Massimiliano d'Asburgo, altri studiosi scoprirono una ad una le località che poi visitate da Callegari. Molte notizie su Palenque (in Chiapas), Tula (vicino alla capitale) e Chichen Itzà (Yucatan) si devono a Desirè Charney, a partire dal 1880.
Lo studioso dapprima ipotizzò che sotto il villaggio indio di Tula giacessero le rovine di Tollen, la capitale antica dei Toltechi, e gli scavi confermarono ciò.
Ma le ipotesi più ardite di Charney riguardarono l'origine dei popoli plaeoamericani. A Yaxchilan, un sito Maya poco noto ed esplorato, trovò in un bassorilievo una correlazione con un precetto religioso caro ai fedeli della del dio indiano Siva; e notò le similitudini tra le piramidi di Chichen Itzà e quelle di Angkor Vat in Cambogia. Questo lo portò a formulare teoria su una migrazione dall'Asia all'America, al temo della deriva dei continenti.

Pochi gli diedero retta. Tra questi Auguste Le Plongeon, un medico appassionato di archeologia al quale si deve la scoperta di uno dei primi "Chacmul", un tipo di statua percolombiana raffigurante un uomo accovacciato con la testa girata di 90°. Le Plongeon scoprì similitudini tra le lingue dei Maya e dei popoli antichi della Mesopotamia. Ma anche lui non fu preso in considerazione.

[1] www.lescienzewebnews.it/archeologia/articoli/art.asp?news=26
[2] http://www.laportadeltempo.com/Documenti/doc_mesoam.htm